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«Cambiati nome! Che io torni a essere Cecilia. Ch’egli ami Cecilia!
«Questo stipo era di mia madre; nessuno conosce il segreto. Vi pongo lo specchietto a cornice d’argento che la mamma ha avuto a Parigi da Cagliostro. Mi vi sono guardata a lungo, a lungo; lo specchietto ritiene la fisonomia dell’ultima persona che vi si è guardata. Vi ho incisa la data con la pietra del mio anello.
«Questi sono i miei capelli. Non li conosci? Pensa. Strana cosa parlare a te come se tu non fossi io stessa! Come son belli e fini i miei capelli! Vanno sotterra senza un bacio d’amore, senza una carezza. Come son biondi! Vanno sotterra.
«Anche tu, piccola mano mia! Metto coi capelli un guanto per ricordarmi di te, piccola mano. Nota che il pollice del guanto mi è corto. Chi sa se avrò una manina così bella, così morbida? La bacio. Addio!!
«Ho pochi giorni a vivere. È la sera del 2 maggio 1802. Non so l’ora, non ho orologio.
«Le finestre sono aperte. Ecco le mie sensazioni: un’aria tepida, un odor di bosco, un cielo verdognolo, così soave! E queste voci sul lago e queste campane e queste lagrime mie calde, possibile non le ricordi?
«Anima mia, imprimi bene in te stessa questo. Il conte Emanuele d’Ormengo e sua madre sono i miei assassini. Ogni pietra di questa casa mi odia. Nessuno ha pietà! Per un fiore, per un sorriso, per una calunnia! Oh, ma adesso no! Adesso con la volontà, col desiderio immenso, son tutta sua, tutta!
«Son cinque anni e quattro mesi che son qui, che essi non parlano a me e che io non parlo ad essi. Quando mi porteranno in chiesa ci verranno anche loro, forse. Saranno vestiti a lutto, mostreranno alla gente un viso triste e risponderanno ai preti: lux perpetua luceat ei. Allora, allora vorrei rizzarmi sul cataletto e parlare!