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invece come un montone tra le gambe del cappellano di..., il quale gli diede del «maledetto asino», una buona scrollata e uno scapaccione di congedo. Il Rico se ne andò mogio mogio, a guardar gli strumenti della banda di V... che aveva suonato in chiesa, alla brava, fior di polke e di galopp e s’era attavolata a bere lì presso. Il ragazzo, fiutando gli ottoni sfolgoranti, udì quella gente che parlava d’andar più tardi al lago a suonare. Gli venne in mente di domandare subito alla sua padrona se volesse prendere Saetta e godere lo spettacolo. Corse via come una lepre, saltò il muricciuolo del sagrato e sparve giù pel bosco verso il sentiero del Palazzo, che passa a mezza costa.
Marina passeggiava quella sera in giardino lungo la balaustrata del lago con un signore piccolo dal lungo soprabito scuro, dai vasti piedi, che non sapeva come camminare nè dove tener le mani e sorrideva di continuo. Era il povero mediconzolo di R... che tutti chiamavano el pittòr per la sua debolezza di tingersi la barba.
— Che peccato, dottore — diceva ella appoggiandosi alla balaustrata e guardando il tramonto — che peccato che quest’aria mi faccia così male! Com’è cattivo Lei a non metterci dentro qualche cosa per me!
Il «pittòr» ci mise dentro un sospiro, giunse le mani, piegò il capo sulla spalla destra, e cominciò col suo solito risolino:
— Se potessi, signora marchesina, se potessi...
E non potè dir altro.
— Pensi. Non si potrebbe farmi una casina di ferro e vetro come si fanno per le palme e per le muse e soffiarvi dentro un’aria molle, un’aria tenera e non celestiale? Perchè non parla, dottore? Dica, se non mi fanno la casina, cosa succederà del mio cuore e dei miei nervi?
— Non si può sapere, signora marchesina, non si può sapere: possono soffrir molto, specialmente il cuore. (Se non fossi tanto asino — pensò il «pittòr» — qui