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suo zio la uguaglianza politica. Non era irreligiosa di natura; pensava qualche volta che vi dovrebbe essere una religione speciale per le classi più alte, una religione liberissima, senza pratiche, quasi senza legge morale o almeno con una legge morale trasformata, dove al concetto del bene e del male fosse sostituito il concetto meno volgare del bello e del brutto, del buono e del cattivo gusto. Lo squisito intelletto della bellezza e dell’armonia starebbe invece della coscienza morale; i sensi non sarebbero combattuti, ma governati con l’intelletto della loro poesia. Un Dio, sì, ci vorrebbe per l’altra gioventù, per l’altra bellezza al di là della tomba.

Il conte abborriva la musica, e Marina si guardava bene dal toccare il suo piano quand’egli era in biblioteca. Però gli contraddiceva risolutamente in fatto di pittura, esprimendo senza ritegno la sua ammirazione pei quadri ch’egli apprezzava meno. Marina si compiaceva d’un dipinto arcaico come d’una suppellettile di lusso, ma comprendeva soltanto le opere del gran secolo dello splendore e della forza. Quelle dei migliori maestri veneziani le affrettavano il sangue nelle vene, le ispiravano uno strano turbamento di ambizioni e di desideri ch’ella non sapeva spiegare a sè stessa. Il conte aveva in salotto uno stupendo ritratto di gentildonna attribuito a Palma il Vecchio. Gli occhi di Marina scintillavano posando su quella bellezza dal viso ardito e sorridente, dalle spalle possenti ch’emergevano col seno dall’abito sfarzoso di broccato giallo. In questo argomento dell’arte il conte si mostrava assai mansueto; neppure le contraddizioni vivaci lo irritavano; anzi gli avveniva spesso di guardar Marina con dolcezza mentr’ella combatteva focosamente per suoi pittori prediletti; il vecchio si ricordava allora della propria madre e taceva.

Malgrado il favore che veniva acquistando presso lo zio, Marina provava un’avversione sempre crescente per