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avrebbe preferito un Rico senza calzoni e senza scarpe a un Rico in livrea, fosse pure livrea di battelliere. E lo stesso Rico, essendosi un giorno arrischiato a dirgli che a Como e a Lecco aveva veduto parecchi suoi simili molto contenti della loro livrea, si udì rispondere, in onore della dignità umana, ch’era un grandissimo asino. Marina gli fece allestire un abito scuro da signorino, nel quale il vanitoso Rico entrava, rosso come un gambero, sprizzando riso da tutti i pori: fino a che gli diventò famigliare come le solite brache paterne ad usum delphini. Anche il vecchio giardino ebbe un ritorno di giovinezza e di civetteria dopo la venuta di Marina. Nuovi fiori si addensarono nelle aiuole, una fascia di ghiaia immacolata le cinse. E foglie e fiori furono composti dall’ossequioso giardiniere nel nome della marchesina, in mezzo alla grande aiuola ovale tra l’aranciera e il viale lungo il lago. Perchè il giardiniere e gli altri servi guardavano a lei come all’avvenire e gareggiavano di zelo per conciliarsene il favore. Tranne Giovanna, però. Giovanna non guardava così lontano, non aveva timori nè speranze, devota al padrone, rispettosa verso «la signora donna Marina», seguitava quietamente la sua via.
Del conte non si può dire che andasse rimettendosi a nuovo come parte della sua casa, nè che rifiorisse come il suo giardino. Ma pure anche la sua persona e il suo volto riflettevano qualche nuovo lume, perchè la gioventù, la bellezza e la eleganza, unite in una persona, irradiano intorno a sè, volere o non volere, uomini e cose. Si radeva più spesso, non gli si vedevano più certi cappelli archeologici da spaventare le passere, certi zimarroni ereditati in apparenza dall’antenato di ferro.
Steinegge, con Marina, era ossequioso e freddo. L’aveva preceduta al Palazzo d’un mese appena: strano segretario, incapace di scrivere due righe di italiano corretto. Il conte l’aveva preso sulla raccomandazione del Marchese