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ancora in tempo di salvare l’onore del nome e una piccola dote. Il conte Cesare e il defunto marchese non erano mai stati amici; da moltissimi anni non si vedevano neppure. Ma il conte era il parente più prossimo di Marina e fu il solo che le offrisse la propria casa. Marina avrebbe rifiutato se le fosse stato possibile. L’aspetto, i modi, i discorsi austeri dello zio le ripugnavano; ma gli amici del tempo felice s’erano dileguati; i parenti di suo padre le mostravano certa grave commiserazione con un nocciolo nascosto di rimproveri che ella indovinava fremendo di sdegno; sola non poteva vivere; quindi accettò. Accettò freddamente, senza ombra di gratitudine, come se il conte Cesare, suo zio materno, adempisse un dovere e si procacciasse per giunta il beneficio di una compagna nella tetra solitudine che abitava. Ella non vi era andata mai; aveva però inteso descrivere più volte la tana dell’orso come diceva suo padre, che l’orso aveva abbandonata nel 1831, per tornarvi ventott’anni dopo nel 1859. Non si sgomentava della futura dimora, anzi si compiaceva nell’idea di questo palazzo perduto fra le montagne, dove vivrebbe come una regina bandita che si prepari nell’ombra e nel silenzio a riprendere il trono. Il pericolo di seppellirvisi per sempre non si affacciava neppure al suo pensiero, perchè ella aveva una fede cieca e profonda nella fortuna, sentivasi nata agli splendori della vita, era disposta ad aspettarne con altera indolenza il ritorno.

Arrivò al Palazzo con suo zio una sera burrascosa. Il conte l’accompagnò egli stesso alle camere che le aveva assegnato nell’ala di levante, verso il monte. Le aveva fatte arredare con semplicità elegante, aveva provveduto al loro riscaldamento per l’inverno e nella camera da letto aveva collocato il ritratto di sua sorella, lavoro dell’Hayez. Marina vi si lasciò accompagnare, guardò senz’aprir bocca le pareti, il soffitto, gli arredi, il quadro, ascoltò le spiegazioni di suo zio su questo