Pagina:Malombra.djvu/51


— 47 —

persone che mi furono assai care. Le circostanze della vita ci hanno tenuti lontani fino ad oggi; un male che noi ripareremo. Vi basta quello?

— Perdoni, non mi può bastare; è impossibile!

— Ebbene, mettiamo un poco da parte la mia amicizia. In fine dei conti non è un beneficio che io Vi offro, è un favore che Vi domando. Io so che avete molto ingegno, molta cultura, che siete probo e che Vi è mancata la Vostra occupazione ordinaria. Io ho a proporvi un lavoro di lunga lena, mezzo scientifico, mezzo letterario, di cui ho raccolto i materiali e che amerei fare io stesso se fossi mai stato uomo di penna, o almeno, se avessi l’età vostra. Questi materiali sono tutti qui, presso di me, e io desidero mantenere una continua comunicazione d’idee con la persona che scriverà il libro, il quale dovrà quindi essere scritto in casa mia. Questa persona mi farà le sue condizioni, naturalmente.

— Io non esco di qua, signor conte — rispose Silla — se Ella non mi dice come ha potuto sapere le cose che ha narrate!

— Dunque non volete che trattiamo di questo lavoro?

— Così, no.

— E se io adoperassi i buoni uffici di una persona che ha grande autorità sopra di Voi?

— Pur troppo, signor conte, non vi è nessuno al mondo che abbia grande autorità sopra di me.

— Io non Vi ho detto che questa persona sia viva.

Silla provò una scossa, un formicolìo freddo nel petto.

Il conte aperse un cassetto del tavolo, ne trasse una lettera e gliela porse.

— Leggete — diss’egli, e si gettò addietro sulla spalliera della seggiola con le mani in tasca e la testa china sul petto.

L’altro afferrò rapidamente la lettera, ne lesse la soprascritta e fu preso da un tremito violento che gli tolse di proferir parola. V’era scritto di pugno di sua madre: