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di un nemico derisore; peggio ancora, sentendosi mal connesso nell’intima sua essenza, afflitto da dolorose contraddizioni, inetto alle opere grandi che vagheggiava, alle piccole che lo premevano, a farsi amare, a vivere; sospinto quindi ogni giorno un passo, dalla violenta malignità delle cose e dalle infermità della propria natura, a qualche paurosa rovina.

Scoprendogli il volto lo si sarebbe veduto placido. Forse lo spirito, deposti gli uffici del moto e del senso, sciolto da ogni legame vitale, vi posava ancora tranquillo; come chi è sul punto di lasciar per sempre, dopo lungo soggiorno, una casa onde pur desiderava partirsi, che sta sulla soglia contento, ma senza rancori ormai nè impazienze, anzi con un’ombra di pietà per le camere chiuse, abbandonate al silenzio. Sapeva di andare alla pace, al sospirato riposo; e sapeva pure, nella chiara visione appena incominciata per esso, di essere finalmente amato, secondo i suoi sogni della vita terrestre, da un cuore tenero e forte che gli sarebbe fedele senza fine. Sulla faccia opposta di tante cose che guardate da questo nostro lato della morte gli eran parse iniquamente oscure, ammirava un ordinato disegno, una luce di bontà e di sapienza.

Ma le fontane, discorrendo tra loro nella notte quieta, dicevano che Marina era passata come Cecilia, il conte Cesare come i suoi avi, che nuovi signori verrebbero per passare alla loro volta e non valeva la pena di turbarsene. Quando, presso l’alba, uscì la luna e si posò sul pavimento della loggia, sulla pompa delle dracene e delle azalee che nessuno aveva pensato a rimuovere, ella parve cercar là dentro, col suo sorriso voluttuoso, ciò che non si trovava ancora, quella notte, nel Palazzo, ma che la vicenda delle cose umane vi ha quindi portato: degli altri occhi da empir di chimere, degli altri cuori da muovere alla passione, invece di quelli che se n’erano appena liberati per sempre.

Fine.