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Spero che potrà dimenticare presto ogni cosa come un brutto sogno. Ha pensato bene Lei, di partire domattina. Me ne dispiace, ma è necessario. Là a Milano bisogna non parlarne più, mai più. E adesso zitto.

Si avvicinarono a Edith camminando adagio, senza parlare. Quando arrivarono a lei, ella si alzò, si unì ad essi. Tornarono insieme, lungo il muricciuolo, sino in faccia alla porta del salotto. Steinegge piegò a quella volta, Edith sedette sul muricciuolo.

— Ah — diss’egli fermandosi — io credeva...

— Non qui, papà?

— Mi pare che per te fosse meglio entrare.

Ella si alzò, abbracciò silenziosamente suo padre e rientrò in salotto con lui, andò a sedere nell’angolo di prima. Steinegge e il curato sedettero anch’essi muti, guardando oscillar l’ombra intorno al piedestallo della lucerna. Le voci della cucina si spensero. Una dopo l’altra le amiche di Marta passarono nell’orto, come ombre di lanterna magica, davanti al salotto, sussurrandovi dentro un riverisco. Si udì il canto dei grilli e delle rane giù per le bassure dei prati.

— A che ora gli hai detto, papà, al vetturino? — chiese Edith.

— Alle cinque e mezzo, cara, per il treno delle otto e mezzo.

— E adesso che ore sono?

— Le dieci.

Non parlarono più. Un quarto d’ora dopo entrò Marta per vedere se vi fossero disposizioni di andare a letto. Guardò un momento, esitante, il suo padrone e si ritirò in punta di piedi come sarebbe uscita di chiesa in un momento solenne. Poco dopo rimise dentro la testa e domandò se doveva chiudere le imposte.

— No, no — rispose Edith.

— Non è un poco umido? — disse Steinegge volgendosi a don Innocenzo.

— Oh no, a quest’altezza no — rispose il curato.