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ancora spesso colpi d’usci sbattuti, strilli di campanelli. Spesso si apriva la porta della loggia, si chiamava sommessamente un nome o l’altro. Nessuno rispondeva; una testa usciva a guardare, poi spariva e l’uscio si richiudeva lentamente. Voci di donne si alzavano un momento in litigio, ma erano fatte tacere subito. Passi frequenti crosciavano sulla ghiaia del cortile, salivano la scalinata: in alto pei sentieri del vigneto, si gridava e qualche volta si rideva. Per fortuna i bagagli dei Salvador eran quasi pronti fin da due giorni prima; la contessa li faceva portar su alla casetta del giardiniere.
Steinegge, fermo in loggia all’ultima arcata di ponente, con le spalle al lago, le braccia incrociate sul petto, aspettò a lungo, con gli occhi sulla porta onde sperava veder uscire Silla.
Finalmente udì venire pel corridoio i passi di due persone. Ascoltò trattenendo il fiato; non parlavano. La porta si aperse.
— Siamo intesi, dottore — disse Silla.— Riferisca le condizioni gravi in cui ho dovuto prestare la mia assistenza; riferisca lo stato di sopore e di abbattimento in cui ella si trova presentemente, e se qualcuno Le domanda di me, La prego rispondere a nome mio che per un’ora mi si troverà qui in loggia.
La voce era sinistramente fredda. Qualcuno che portava un lume tornò indietro; il medico attraversò la loggia, Silla vi entrò dopo di lui.
Steinegge gli si fece incontro.
— Signor Silla! — diss’egli.
L’altro non gli rispose, non si voltò nemmanco a guardarlo, andò a buttar le braccia sulla balaustrata verso il cortile.
Steinegge fece un altro passo.
— Signor Silla, non mi riconoscete?
Silenzio.
— Ah, quand’è così, bene.