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— e raccontò la lunga scena, poi quanto gli aveva riferito il Rico.
Steinegge fremeva, sbuffava; non lasciò quasi che don Innocenzo finisse e corse via con un gesto risoluto che voleva dire:— vado io — . Entrò nel Palazzo mentre ne usciva il giardiniere, che pareva aver gran fretta e non lo riconobbe.
Salendo le scale incontrò Fanny che scendeva con Catte singhiozzando, ripetendo:
— Voglio andar via, voglio andar via!
— Andrete, andrete — rispondeva Catte — ma pazienza, benedetta. Volete lasciar la vostra padrona in quello stato?
— So di niente, io, voglio andar via!
— Madre santa, che vita! — disse Catte a Steinegge, che stringendosi alla ringhiera per lasciar passare, le guardava attonito. Egli stava per domandar loro qualche cosa, quando la contessa Fosca gridò dall’alto:
— Ohe, questo Momolo!
— Subito, Eccellenza! — rispose Catte, e scese in fretta, trascinando giù Fanny. Steinegge continuò, pure in fretta, a salire.
— Momolo — disse la contessa, scambiando Steinegge pel suo servitore — avrà inteso bene, eh, quell’altro? Un legno e un biroccino alle sei. Ah, siete voi? Scusate, caro voi.
— Parte, la signora contessa?
— Sì, sì, e maledetta quella volta che son venuta!
Nepo chiamò sua madre all’uscio del salotto. Si vide dietro a lui l’avvocato Mirovich seduto al tavolo con una lucerna, un calamaio e due gran fogli davanti a sè. La contessa entrò in salotto e l’uscio ne fu richiuso sul viso a Steinegge. Questi trovò nella loggia il Vezza appoggiato alla balaustrata verso il lago; gli si avvicinò col cappello in mano per parlargli; ma colui, guardandolo appena, e accennatogli di tacere, volse il capo dall’altra parte, ascoltando.