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Egli obbedì, le andò vicino. Gli altri due uscirono.
— Il conte Cesare non ha potuto udir parola — disse don Innocenzo pigliando la candela e posandola sul comodino. — Egli dorme in pace.
Il medico si avvicinò, posò una mano sul cuore del conte, trasse l’orologio e disse forte:
— Un’ora e trentacinque minuti.
Don Innocenzo cominciò subito le preghiere per l’anima partita.
Una voce chiamò dalla porta il medico, che uscì. Anche i domestici, per ordine di Nepo, uscirono tutti, tranne Giovanna che, inginocchiata al letto del suo padrone, rispondeva con voce debole, desolata, alle preghiere del curato. Nepo accese due candele che erano sul cassettone. Le fiammelle, allargandosi come due occhi spaventati, mostrarono a poco a poco al suo viso cupido le chiavi del conte sul cassettone, la contessa Fosca pochi passi discosto, il Mirovich che rientrava pallido, col ribrezzo sul volto della cosa stesa sul letto, a sinistra. Costui si fermò sulla porta e guardò Nepo, aggrottando le sopracciglia. La contessa lo vide, ruppe in singhiozzi, andò a stendergli il braccio che il vecchio cavaliere prese ossequiosamente, e uscì con esso.
Nepo tolse le chiavi e una candela; si provò pian piano ad aprire uno stipo addossato alla parete di fronte al letto; tentando tutte le chiavi senza riuscirvi.
— Oh Signore! — disse la Giovanna con accorato sdegno. Don Innocenzo l’interruppe.
— O pregare o uscire — diss’egli.
Ma Nepo non gli badò. Curvo sullo stipo, girando la chiave nella serratura, figgendovi quasi il lungo naso, pareva una donnola fremebonda, inarcata a spiare, a odorar per qualche pertugio la preda.
La collera salì al viso di don Innocenzo.
— Vado io — disse.
Avrebbe afferrato colui, lo avrebbe gittato alla porta se Giovanna, supplichevole, non lo avesse trattenuto.