Pagina:Malombra.djvu/412

 
— 408 —
 


— Mi ha toccato qui e ho visto quel che dovevo fare. Sono andata giù, gli ho parlato. La sera dopo ti mandai il telegramma. E tu, allora?

Silla si sentiva assalire furiosamente alla sua volta dalla follìa. Le pareti, lo stipo, gli occhi di Marina, la solitaria candela gli rotavano in giro vertiginosamente. Non ebbe il tempo di rispondere perchè l’uscio che dalla camera da letto metteva nel corridoio, sonò di più colpi, fu aperto con violenza. Una figura che per lungo tempo non si era fatta vedere al Palazzo, vi aveva fatto ritorno nel cuore della notte, un’ora prima, mentre Silla attendeva Marina sulla scaletta. Giovanna vegliava presso il conte sopito. Gli altri dormivano sognando nel dolce sonno primaverile, chi il fragor di Milano, chi la quiete di Venezia, chi eredità, chi pranzi, chi Nina dalle braccia di neve. Ogni cancello, ogni porta s’erano aperti a quest’ospite, con l’atterrita obbedienza muta di servi sorpresi dal ritorno impensato del signore. Era salito sino alla camera del conte, e ciascuna pietra della casa aveva intanto sussurrato alla vicina il suo funebre nome:

morte.

— Marchesina, marchesina! — esclamò Fanny entrando. Vide Silla e tacque, fulminata. Silla si staccò da Marina, si trasse un passo indietro. Marina, sorpresa un momento, si riebbe tosto, gli riprese la mano sdegnando dissimulare, vibrò a Fanny un imperioso:

— Che hai?

— Il signor conte! — rispose Fanny.

— Ebbene?

— C’è venuto un altro accidente un’ora fa e adesso è dietro a morire! Han detto di venir giù, di far presto.

Marina spiccò un salto verso la cameriera.

— Muore? — diss’ella.

Fanny aveva ben visto alla sua padrona, da tre giorni, degli occhi strani; mai come in quel punto. Sgomen-