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— è vero e tu hai paura, mi credi pazza! Chi ti aveva detto, piccolo cuor vile, di fare il grande? Va!

Una dopo l’altra le parole fiere frustavano Silla in viso, lo avvinghiavano nella loro logica veemente, lo irritavano, gli mettevano un’avidità crescente di sapere, di udire. Egli la incalzò di domande violente, passando dalla preghiera allo sdegno. Ella lo ribatteva indietro colla sua sillaba dura:

— Va! Va!

Finalmente si arrese.

— Ascoltami! — disse — camminiamo.

Si avviarono lentamente, girando intorno al piano, passando ad ora ad ora nel chiarore che veniva dalla camera da letto, perdendosi nell’ombra. Marina parlava rapidamente, tanto sottovoce che Silla, per udirne le parole, dovea piegar l’orecchio alla bocca di lei.

V’era sul suo viso, le prime volte che passò nella luce, una curiosità febbrile; quindi vi ripassò con gli occhi vitrei sbarrati. Marina parlava tenendosi sempre un pugno stretto alla fronte. Ad un tratto, nell’ombra, si fermarono. — Ma come? — diss’egli. Marina non rispose. Un momento dopo si udì lo scatto di una molla. Poi egli fece un’altra domanda sommessa. Marina andò nella camera da letto, ritornò con una candela accesa, la posò sullo stipo. Anche ella era livida e gli occhi suoi avevano una cupa espressione indefinibile. Silla afferrò il manoscritto avidamente. Marina seguiva, attenta, la sinistra storia sulle labbra mute, sulle sopracciglia, sulle mani tremanti di lui. Durante quel mortale silenzio, passi precipitati suonarono a più riprese nel corridoio del piano inferiore, ma nè l’uno nè l’altro li udirono. Di tempo in tempo Silla fremeva, pronunciava, leggendo, alcune parole: ed ella allora, alitando affannosamente, appuntava l’indice sul manoscritto.

— Ti ricordi questo? — le diss’egli una volta, continuando a leggere.