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— Non comprendo — diss’egli.
Marina si rizzò di schianto a sedere.
— Non m’hai detto che ti ricordi? — V’era in lui un demonio che s’irritava di queste ciance vane, non si curava di comprenderle o no. Prese colle mani di ghiaccio quelle di lei, la piegò a forza sulla spalliera della poltrona, si curvò a risponderle.
— Non so nulla, non ricordo nulla. Non ho vissuto mai, mai tranne adesso. Sapevo solo che sarebbe venuto, questo momento! Ho la frenesia di goderlo.
Egli provava la sensazione vertiginosa di scendere in un gran vuoto senza fondo, desiderava avidamente di precipitare sempre più giù, senza rimedio.
— Non stringermi così — disse Marina cercando svincolar le mani. — Non voglio! — esclamò, poichè l’altro non l’ascoltava. Fu tanto superbo l’impero del suo sguardo e della sua voce che Silla obbedì. Si alzò in piedi, si allontanò da lui lenta, a capo chino. Si voltò improvvisamente, battè il piede a terra.
— Pensa! Ma pensa! — disse.
Un brivido corse pel sangue a Silla, glielo raffreddò. Non so quale informe presentimento pauroso sorgeva in lui.
Marina gli chiese precipitosamente:
— Perchè mi hai chiamato Cecilia quella sera?
— Perchè avevo scoperto ch’eri la Cecilia delle lettere.
Ella riflettè un istante e disse con calma:
— Certo, me l’ero ben immaginato. Ma ieri a sera — soggiunse con l’impeto di prima — ma poco fa, perchè dirmi che ti ricordi?
— Perchè ho creduto che parlassi della nostra corrispondenza e del momento in cui ti strinsi fra le braccia, qui sotto, in darsena.
Ella sedette allo stipo, ne cavò il manoscritto, parve immergersi per qualche minuto nella lettura delle vecchie carte giallognole, si alzò bruscamente.