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CAPITOLO IV.
L’ospite formidabile.
Silla, ch’era sdraiato sull’erba, balzò a sedere e contò le ore. Dieci e mezzo. Trasse l’orologio, lo guardò al fioco lume delle stelle. Dieci e mezzo. Lo sapeva che dovevano essere le dieci e mezzo: aveva guardato l’orologio due minuti prima per la centesima volta. Abbrancò l’erba con le dita convulse, ne strappò due manciate. Marina aveva detto: dopo le undici.
Lasciò cader le braccia inerti, piegò il collo, si accasciò tutto come se un piede enorme gli calcasse le spalle. Pensò in quel momento con certa stupidità fredda e lenta all’atto sleale che stava per compiere sotto il tetto d’un amico ammalato gravemente; pensò ai propositi del passato, alla vicenda di cadute e di vittorie, sovratutto al sinistro presentimento antico di un’ultima caduta senza rimedio, di un abisso orribile predisposto chi sa in qual punto della sua vita, dove si sarebbe perduto, anima e corpo, per sempre. Sentì senza sgomento d’esservi giunto, d’avere un piede proteso nel vuoto.
Un’amara energia gli corse le vene, ogni pensiero scomparve dalla sua mente, tranne il pensiero dell’ora che incalzava.
Era lì da un’ora allo stesso posto della sera precedente sull’erba del vigneto, accanto a un cipresso. Quelle cinque ore eterne del dopopranzo, che pareva non aves-