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quest’altro adesso? — Ma poi saputolo ospite della canonica, gli si era mostrata cordialissima. Steinegge non aveva inteso un terzo de’ suoi discorsi sul triste fatto, delle sue lamentele sulla « babilonia » che regnava al Palazzo. Secondo la contessa, Marina era inconsolabile, non usciva mai o quasi mai dalle sue stanze. Del matrimonio non gli aveva detto verbo, ma gliene aveva parlato Giovanna. La povera Giovanna, sparuta, lagrimosa, gli aveva fatto infinita pietà. Il suo gran pensiero era il conte; del resto si curava soltanto per le impressioni che potesse riportarne il suo ammalato, ricuperando la intelligenza. Ell’avrebbe voluto che il matrimonio si facesse subito e se ne andassero via tutti. Secondo lei, quella signora contessa e quel signor conte di Venezia non miravano che ai denari. Le avean già domandato s’ella sapeva che il suo padrone avesse fatto testamento.
— Ma vi è qualche cosa che mi mette più angustia di tutto questo — soggiunse Steinegge. — Ho veduto Silla.
Edith tacque.
— Oh, mi ha fatto una impressione di trovarlo lì! Parve sorpreso anche lui, ma mi sfuggì, mi salutò appena, non mi chiese di te, niente!
— Non c’era bisogno, papà, che ti chiedesse di me.
— Ma eravamo pure buoni amici, io credo? Non è naturale questo. Temo di saper troppe cose, Edith. Temo... Tu puoi capire cosa temo. D’altra parte, quella sera, a Milano, pareva ben guarito quando si parlò del matrimonio. Non è vero, mi pare di averti già raccontato...
— Sì, sì, lo so, papà. Dove andiamo? Qui non è piacevole.
Avean raggiunta la strada comunale. Vi faceva scuro, Venere era scomparsa; l’aria portava dalle bassure della valle uno sparso gracidar di rane, un odore grave ai prati umidi.
— Prendiamo a sinistra — disse Steinegge — faremo il giro e torneremo a casa per il paese e la chiesa.