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mensali, fece parlare di sè, dell’ingiusto nome di guerra che gli avevano dato. Il sole cadente rideva sul soffitto. Don Innocenzo cominciò a parlare de’ suoi cocci preziosi, dei dotti che dovevan venire a vederli.
Edith faceva delle osservazioni critiche di cui suo padre si scandolezzava. Egli prestava intera fede ai cocci e ai dotti, parlava delle palafitte svizzere che conosceva. Ad un tratto s’interruppe ricordandosi che doveva andare al Palazzo.
— Aspetti — gli disse don Innocenzo — aspetti il caffè. Mi pare che si potrebbe uscire a prenderlo nell’orto, non è vero?
Uscirono nell’orto all’aria dolce, odorata di primavera. Il sole avea rotto le nuvole e toccava quasi le colline di ponente: la casetta ne ardeva, i vetri ne sfolgoravano. Edith volle portar il caffè. Steinegge e don Innocenzo sedettero ad aspettarlo sul muricciuolo dell’orto in faccia al salotto.
— Marta è una buona donna — disse don Innocenzo — ma è una gran chiacchierona. Ci sono de’ pasticci al Palazzo. Intanto è tornato quel tale Silla.
Steinegge diè un balzo.
— Oh scusi, non è possibile! Se l’ho visto io a Milano l’altro giorno, in casa mia, e non mi ha detto niente!
— Tant’è; adesso è qui.
— Lei lo ha veduto?
— Certo.
— Oh, ma questo!... Scusi molto, io credo che i Suoi occhi non L’hanno servita bene! Oh, è impossibile questa cosa! Lui qui, al Palazzo?
Si alzò e si pose a camminar in fretta su e giù lungo il muricciuolo, borbottando in tedesco.
Si fermò su’ due piedi. Gli era balenata un’idea.
— Forse è stato richiamato? — diss’egli. — Forse per telegrafo?