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Questi era beato di aver seco gli Steinegge. Gli ravvivavano un po’ la solitudine di cui soffriva, in fondo, nella sua ingenua ammirazione della società moderna, nella sua passione per conversare di politica, di letteratura, d’ogni novità curiosa. Di Steinegge s’era innamorato di slancio; per Edith sentiva, specialmente dopo l’ultima sua lettera, un alto rispetto, misto però di soggezione. La fiducia di uno spirito così nobile lo sgomentava, quasi. Temeva di non sapervi corrispondere, di non poter afferrare certe finezze femminili, di non intender bene certe squisitezze di sentimento in cui bisognava entrare per consigliar quell’anima, per esercitare l’ufficio religioso che gli veniva chiesto. Sentiva in pari tempo un vago sospetto che vi fosse nell’ascetismo di Edith qualche cosa di eccessivo e di tenace da doversi combattere. Era insomma il suo compito attraente ma grave, di quelli che lo trasformavano, che lo facevano pensar con calma, parlar con misura, operar con cautela.

Prima ancora che Edith e suo padre salissero alle loro stanze, il parroco volle condurli, malgrado le osservazioni di Marta, a veder i rosai, le fragole e i piselli dell’orto. Il suo orticello gli pareva meraviglioso e se ne teneva: parlava del grossolano coltivatore come se il verde uscito dai pochi granellini sparsi sulle aiuole, e i fiori usciti dal verde, e i frutti dai fiori fossero tanti miracoli suoi. E ora Steinegge, un altro botanico profondo, spargeva a destra e a sinistra, sulle fragole e sui piselli, i suoi grossi complimenti, difendendosi con altri complimenti da Marta che gli veniva dietro per spazzolargli il soprabito. Edith s’indugiava a guardar distratta il verde un po’ freddo dei prati sotto il cielo nuvoloso, a odorar i bottoni di rosa. Puro odore pio! Faceva pensare alla preghiera d’un bambino. Ma don Innocenzo beveva voluttuosamente le profane lodi di Steinegge con dei: — Non è vero? Eh! dica la verità! — Dopo