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— Mi dica Lei, signorina — chiese don Innocenzo a Edith — ho detto male? Lo sanno anche Loro, non è vero, che sono un povero parroco?
— Noi gran signori amiamo qualche volta discendere — rispose Edith, scherzando.
La piccola casa rideva tutta. Non c’era granello di polvere sugli arredi nè sulle invetriate: le tendine di percallo bianco, appena lavate e stirate, diffondevano nelle stanzette una luce color di perla, mandavano odore di nettezza. Nel salottino da pranzo a pian terreno un passero solitario gorgheggiava festosamente fra le due porte che mettevano nell’orto; in mezzo alla tavola un vasetto di porcellana bianca portava dei fiori. Da quelle due porte, da ogni finestra della casa entrava il verde tenero della campagna, entrava un senso profondo di riposo per chi veniva dalla città e aveva ancora negli occhi il frastuono del treno, nelle ossa la stanchezza di una lunga corsa in carrozza. V’era tranquillità e pace perfino nell’alto canapè di vecchio stampo, nelle antiche incisioni giallognole del salotto, negli uccelli impagliati che nidificavano dentro due campane di vetro, sopra il caminetto dello studio. Anche l’orologio a pendolo fra le due campane, con la sua raucedine acuta e sfiatata di vecchione sordo, riposava lo spirito. E v’era, sotto a questo sorridere pacato della casetta, una castità verginale, senza sospetto, posata innocentemente in seno alla natura amorosa, aperta alla contemplazione della vita. La si leggeva perfino nella forma incomoda di certe suppellettili: perchè se tutto là dentro diceva pace e quiete, nè gli alti canapè stretti, nè le seggiole impagliate a spalliera verticale permettevano la voluttà del riposo spensierato e delle immagini vagabonde. Dallo studio, zeppo di libri, usciva uno spirito di austerità pensosa; cosicchè l’aspetto della casa rendeva immagine, in qualche modo, dell’aspetto di don Innocenzo, ilare, semplice, pieno di pensiero.