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che attraversava gli archi, sciolse, portò via le parole voluttuose.

Nella sua stanza, dove un fioco lumicino posato a terra spandeva nell’aria calda e greve certo chiarore sepolcrale, il conte Cesare supino, immobile, non vedeva la Giovanna seduta presso il letto con le mani sfiduciate sulle ginocchia, e gli occhi fissi in lui. Credeva invece veder la figura di sua nipote ritta in mezzo alla camera. Era sua nipote e un’altra persona nello stesso tempo, ciò gli pareva naturale. Si moveva, parlava, guardava con due occhi pieni di delirio; come mai se quella persona era morta e sepolta da lungo tempo? Egli lo sapeva bene ch’era stata sepolta, ricordava d’averlo inteso da suo padre; ma dove, dove? Tormentosa dimenticanza! C’era pure nella sua memoria quel luogo, quel nome; ve lo sentiva muoversi, salire, salire finchè ne scattò su, in lettere visibili.

Credette allora cavar di sotto le lenzuola il braccio destro, stenderlo, appuntar l’indice a colei, dirle ch’ella mentiva e ch’era ben sepolta ad Oleggio, nella cappella di famiglia. Ma la donna lo minacciava ancora, lo sfidava, gli gettava un guanto; pareva Marina ed era la prima moglie di suo padre, la contessa Cecilia Varrega. Ella lo sentiva, parlava di antiche colpe, di una vendetta da compiere. Allora egli immaginava lanciarsi smanioso d’ira dal letto, e tutto si confondeva nella sua mente in una torbida visione a cui intendeva ansando, come se sulla porta della morte gli apparisse, al di là, un pauroso dramma sovrumano.

C’era un peggioramento improvviso, la paralisi minacciava il polmone.

Il Palazzo non era parso mai così cupo come quella notte, malgrado i lumi che vi vegliarono fino all’alba.