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Silla comprese e obbedì. Fatti due passi, vide qualcuno nell’ombra. Era Catte.

— Ah, è qui, marchesina. L’ho cercata dappertutto. Sua Eccellenza mi aveva dato questo scialle per Lei.

Marina non degnò rispondere nè tampoco guardar la cameriera; fece dalla porta un saluto freddo a Silla e sparve nel vestibolo.

Silla attraversò il cortile, salì la scalinata ed escitone di fianco sedette sull’erba sotto un cipresso, vi rimase un pezzo bevendo il forte odore dell’albero, ascendendo con gli occhi per l’alta colonna nera sino alle stelle.

Più tardi la contessa Fosca, chiusa con Nepo nella sua camera da letto, smaniava, singhiozzava, esclamava contro il frate che aveva raccontato quelle cose orribili, contro la dama milanese che le aveva date le prime informazioni di Marina; si domandava cosa mai vi potesse essere fra Marina e suo zio, cosa mai ella avesse detto, cosa mai avesse fatto quella notte; protestava di perder la testa, di volerne uscire, di volerne far uscire Nepo a ogni costo, di voler piantare quella benedetta casa e il suo padrone e la sua padrona, e i denari e tutto. Quando aveva finito, ricominciava. Nepo taceva sempre, ingrugnato; solamente, se sua madre alzava troppo la voce, le faceva un gesto iracondo. Ella resisteva, sulle prime; gli diceva: — E cosa fai tu col tuo tacere? — Ma Nepo s’inviperiva. Allora la povera donna diventava umile, piagnucolosa; ripeteva: — Nepo, la è matta! Nepo, la è matta! Voleva chiamar l’avvocato, consultarlo. Nepo si oppose tanto risolutamente ch’ella credette leggergli in viso un proposito, un piano bell’e pronto. Gli domandò che intendesse fare.

— Aspettar — diss’egli — non comprometter niente.

— Per la donazione, caro, ho paura. Adesso la va peggio.

— Aspettare — ripetè Nepo.


Malombra 24