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— Mi dica: si ricorda? — ripetè Marina.

— Oh Cecilia! — diss’egli.

Le voltò la mano, vi abbassò rapidamente il viso sul palmo, se la serrò sugli occhi, parlò convulso:

— Non v’è più mondo, se sapesse, per me! non vi son parenti, nè amici, nè passato, nè avvenire: niente, niente; non v’è che Lei, mi prenda, mi prenda tutto!

Voleva esaltarsi e vi riusciva. Si trasse quel piccolo palmo sulla bocca; pensò alla propria vita amara, al mondo ingiusto, vi soffocò uno spasimo di passione che dovette entrar nel sangue di lei, attraversandolo sino al cuore.

— No, no — diceva ella con voce interrotta, mancante, — adesso no.

Avevan la febbre tutti e due.

— Quando si è ricordato? — disse Marina.

Ella era fissa nell’idea di Cecilia Varrega, che avrebbe ritrovato, nella seconda esistenza terrena, il suo primo amante.

— Iersera — diss’egli credendo aver intesa la domanda. — Iersera, dalla signora De Bella, che mi parlò di lei; dopo hanno fatto una musica che mi ha rotto il cuore, me ne ha tratto fuori tante cose. Esco di là mezzo pazzo, trovo il suo telegramma. Allora mi si è illuminato tutto, ho sentito il suo destino prendermi, portarmi qua. Mi lasci questa mano, questa dolcezza infinita. Lei non sa che passione è la mia. Mi par di morire a non spiegarmi e non posso parlare. Vorrei esser tratto giù per sempre, con Lei, in quest’acqua che mi chiama.

Egli tirò a sè la inerte mano prigioniera, il braccio, la persona.

— Domani — sussurrò Marina, resistendo — domani sera dopo le undici, sulla scaletta della darsena.

Egli non voleva lasciar quella mano, vi figgeva le labbra insaziabili.

— Venga — diss’ella a un tratto concitata — mi segua, discosto, non mi parli e, sulla porta, mi lasci. Lo sapevo.