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Nessuno le rispose.

Marina discese lentamente, con piedi silenziosi di fata, in mezzo alla larga scala semioscura. Silla le teneva dietro, stretto alla gola da commozioni inesprimibili, quasi cieco. Ancora un momento e sarebbe stato solo con lei, nella notte.

La porta a vetri che mette in giardino era spalancata. Il lume del vestibolo, oscillando all’aria notturna, mostrava di fuori un lembo di ghiaia rosea; presso all’uscio, sopra una sedia, lo scialle bianco di Marina. Ella lo porse a Silla, si fermò perchè glielo posasse sulle spalle. Le loro mani si incontrarono; eran gelate.

— Fa freddo — disse Marina, stringendosi lo scialle sul petto. Pareva un’altra voce; quasi tremante. Silla non rispose; credeva ch’ella gli sentisse il cuore a battere. Le posò un momento le mani alle braccia quasi per ravviarle lo scialle. Ella trasalì; le spalle, il seno le si sollevarono. Uscì senza dire parola, fece una cinquantina di passi nel viale e s’appoggiò alla balaustrata, guardando il lago.

La notte era oscura. Poche stelle lucevano nel cielo nebbioso fra le enormi montagne nere che affondavano l’ombre nel lago. Il gorgoglìo delle fontane, il canto lontano dei grilli nelle praterie, andavano e venivano col vento.

Silla non vedeva che la elegante figura bianca, curva sulla balaustrata presso a lui.

— Cecilia — disse piano accostandosele.

Ell’appoggiava il mento alle mani congiunte. Ne stese una a Silla senza voltar la testa, e gli disse appassionatamente:

— Sì, mi chiami sempre così. Si ricorda?

Egli strinse con ambedue le proprie quella mano di raso odoroso. Temeva di esser freddo, di non aver neppur sensi in quel momento. Se la recò alle labbra, ve le impresse, veementi, sul polso.