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desiderava avere prima un colloquio colle persone di famiglia, com’era inteso col signor avvocato.

— Avvertite la marchesina — rispose Fosca.

— L’ho già avvertita, ma dice che non può venire.

— Ditele che si andrà noi da lei.

— Oh, ha già detto che non vuol nessuno.

Silla si levò subito da tavola e, fatto un tacito saluto, se n’andò.

— L’ha capita — disse Nepo. — Potete dirci voi, Giovanna, come è venuto quel signore lì e chi gli ha detto di fermarsi?

— Come sia venuto non lo so. Di fermarsi, magari l’ho pregato anch’io perchè so che al signor padrone gli è tanto rincresciuto quando è andato via e ho idea che se lo potrà riconoscere, gli farà tanto bene di vederlo. Mi aveva fin detto il signor padrone di tenergli la stanza sempre pronta nel caso che avesse a ritornare.

— Voi non dovete pregarlo niente affatto — disse Nepo. — In questa circostanza dovevate prendere gli ordini dalla marchesina e quasi anche i miei, posso dire. E adesso avvertite il padre che noi lo aspettiamo nella camera della contessa Salvador. — Anche Lei, sa, commendator Vezza, come amico di mio zio. Intendiamoci, amico vero; perchè certi altri amici non li pareggerei davvero alle persone di famiglia.

Il commendator Vezza, felice nella sua curiosità, fece un cenno di gradimento.

Il frate entrò subito dopo gli altri nella camera della contessa e, toccatasi la calotta, sedette, senza aspettare invito, sopra un seggiolone a fianco del canapè dove la contessa Fosca, irrequieta, sgomentata, batteva nervosamente sulle ginocchia il suo gran ventaglio chiuso. L’avvocato Mirovich, imbarazzato, guardando ora il frate, ora il pavimento, cominciò a dire:

— A spiegazione delle parole... delle parole... non chiare, ecco, delle parole non chiare, ecco, delle parole non chiare che il padre ha