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— Sì, ma, ohè, — disse l’avvocato serio serio — patto avanti, che sia lucido questo intervallo; patto avanti, che sia molto lucido; e che ci sia il dottore; sì, perchè tutto va bene, ma che non andiamo in un imbroglio.
Si udì la voce di padre Tosi che parlava in loggia.
— Vado a veder dello zio — disse Nepo; e uscì.
— Dopo tutto — disse la contessa — mio fio aveva ragione con quell’affare del commissario di polizia. È stato un bel tiro, sapete.
— Altro se è stato un bel tiro! Parlerò io a quel signor frate, se la contessa lo permette.
— Sì, sì, fate, parlate, tutto ciò che volete. Oh Dio, Zorzi, che monte di pasticci! Qua non si sa in che mondo si sia. Qua non si capisce niente. Qua ci si marita e non ci si marita. Qua non c’è ora da mangiare, qua non c’è ora di dormire. E tutto, in nome di Dio...! Oh che vita, oh che vita!
Entrò il cameriere a sparecchiare. Non si sbrigava mai; pareva che giocasse con le posate e il vasellame.
— Andate là, andate là anche voi, Zorzi — disse la contessa. — Io vado a riposare un pochetto. Non ho chiuso occhio stanotte, non ne posso più. E tu chiamami Catte, benedetto. Zorzi — diss’ella poi che il cameriere se ne fu andato in cerca di Catte — guardate di cavarci qualche cosa a quel signor Silla.
Silla non era entrato subito dal conte. S’era fatto prima raccontar dalla Giovanna i casi di quei due giorni. Povera Giovanna! Parlava con una fioca voce accorata che pareva venir da lontano, da lontano, da un mondo di dolore.
Il matrimonio era stato fissato per la sera del 29. La signora donna Marina, all’ultimo momento, lo aveva fatto differire al mattino del 30. Però la sera del 29 vi erano stati ugualmente i fuochi sul lago e la musica. Il conte si era divertito e stava secondo il suo solito. Giorni addietro aveva sofferto di un leggero malessere, ma non