Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
— 342 — |
verserebbe forse qualche ora splendida come quel magico paese lì, quel verde poema ariostesco di folli colline che dalle montagne saltavano al piano in disordine, portando in collo e sui fianchi ville, torri, giardini, inghirlandate di vigneti, curve intorno a laghetti pieni di cielo. E poi...
— Dica un po’ Lei signore, — saltò su il vetturino — è vero che lo sposo ha questo gran mucchio di denari?
— Non lo so.
— Ma lo conosce però, Lei?
— No.
— Vedo. Io l’ho visto un paio di volte, ma stando al mio poco talento di me, dev’essere un... Che pazzia, un fior di ragazza come quella lì! Segno che i denari son tanti. E io devo esser nato pitocco! Ci promettono sempre il mondo di là, a noi; ma io ci ho una maledetta paura che sia ancor peggiore di questo. Se in paradiso non si hanno a trovare che preti, vecchie, bambini da mammella e straccioni, caro il mio signore, è proprio mica il mio sito. Ih!
Egli tirò una frustata rabbiosa alla povera bestia che toccava allora una strada selciata fra due file di case, l’ultima borgata sulla via del Palazzo. Faceva caldo. La cavalla si fermò davanti a un’osteria e il suo padrone gridò che gli portassero il solito — calamaio e inchiostro.
— E così — disse l’ostessa che venne a servirlo — è morto, eh?
— Chi è morto?
— To’, il signore, là del Palazzo?
— Chi l’ha detto! — esclamò Silla, pallido.
— L’uomo della Cecchina gobba che è passato adesso, saranno cinque minuti. L’hanno mica incontrato?
— Andiamo, presto! — disse Silla.
— Andiamo pure — rispose il vetturino rendendo il bicchiere all’ostessa — ma se è andato avanti lui, per me non gli corro dietro.