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me. Basta. Si sente un maledetto «toc-toc»; la donna (ce l’ho ancora quell’empiastro) la va ad aprire; cosa l’è, l’è quel Rico, quel figlio del giardiniere del Palazzo con un dispaccio di esser qui stamattina con la cavalla, alle 10. Trovarmi vuoto a quest’ora, magari, è una di quelle asinate che io non ne faccio. Sicchè...

— Basta, basta. E il conte come sta?

— Sta bene.

— Come! Non è ammalato?

— L’ho visto io l’altro giorno. Era un po’ giù, un po’ vecchio, un po’ brutto, un po’ gobbo, che so io! un po’ mezzo andato; ma stava bene. Se però non si è ammalato ieri.

— Cosa t’hanno detto ieri mattina quando sei andato al Palazzo per i bagagli?

— M’han detto niente del tutto. C’era il giardiniere al cancello, che quando mi ha visto venire da lontano, si è piantato in mezzo alla strada e ha cominciato a far di no col braccio a questa maniera qui e poi a fare a questa maniera qui che andassi fuori dai piedi: ed io allora ho fatto «piglia!» a quest’altra maniera qui, ho voltato la bestia e sono andato a fermarmi a Lecco. Son venuto poi a casa tardi e sono andato a letto subito.

Intanto s’eran posti in viaggio e la cavalla trotterellava a capo chino, fiutando la strada, spazzando via con due noncuranti colpi di coda a destra e a sinistra le frustate tra serie e scherzose del padrone. Questi smise di parlare. Passavan gli alberi, le siepi fiorite. Casupole sedute nei campi si venivano alzando su tra i gelsi, guardavano, e poi, adagio adagio, si riacquattavano. I monti lontani giravano, mutando aspetto, intorno alla strada serpeggiante. Le note cime imminenti al lago nascosto si affacciavano a Silla ora da destra ora da sinistra, gli crescevano sugli occhi, come le inquietudini febbrili nelle vene.

Il vetturino non poteva tacere a lungo.