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Edith si alzò e gli si avvicinò.
— Scusi, signor Silla — diss’ella appassionatamente. — Lei è nostro amico e mi permette di dire una parola a papà. Puoi tu ignorare — soggiunse rivolta a quest’ultimo — che non v’ha per me felicità maggiore di vivere con te, sempre con te solo, amar te, servir te, sentirmi protetta da te, sapere che tu mi vuoi bene? — Ella disse questo in italiano e poi continuò in tedesco la sua effusione affettuosa. Intanto suo padre la interrompeva con esclamazioni e gesti, e batteva con le mani su Gneist e sul tavolo; ogni muscolo del suo viso grinzoso lottava con la commozione. Stava per essere vinto. Trarre l’orologio, esclamare — Oh, C.... che mi aspetta — correre a pigliarsi il cappello, fare un gran gesto di saluto a Silla e infilar la porta, fu un punto solo. Edith lo chiamò; non le rispose; corse per trattenerlo; egli era già in fondo alle scale, senza ombrello. Ella rimase sospesa un momento, pallidissima; si compose tuttavia subito e invece d’avviarsi alla sua sedia presso la finestra, s’indugiò a disporre meglio le lucernine e i fiori sul piano del caminetto.
— Signorina Edith — cominciò Silla con voce alterata.
Ella si voltò, gli tese la mano e disse:
— Buon giorno.
Silla tacque un momento, poi soggiunse:
— Scusi. Le rubo un minuto di più. Volevo dirle che solo adesso, dopo molte incertezze e ripugnanze, comincio a credere alla fortuna.
Edith tacque.
— Può intendermi, signorina Edith?
— Signor Silla, Lei è amico di mio padre e quindi è amico mio. Io non capisco perchè Lei mi faccia tali discorsi. Non conosco bene la Sua lingua, ma se Lei vuole far dire alle parole più del dovere, questo non è bene e io non voglio.
Ella disse — non voglio — con altera energia, con agitazione. Non parve comandare a Silla soltanto.