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tappeto azzurro e nero, il suo manto di ricchezza e di nobiltà da nascondervi sotto le quattro gambe.

Pei due balconi si spandeva sino al fondo della stanza la gran luce vitale dell’aprile, mettendo dal cielo sereno un bagliore azzurrognolo sui fogli sparsi per la tavola, e sul soffitto un riflesso caldo di opposte case, arse dal sole cadente. Quand’anche non si fosse veduto per quei due meravigliosi quadri dei balconi tanto arco di cielo e tanto mare disordinato di tetti sconvolti per ogni verso fra poche fenditure di grandi vie, rappezzati di vecchio e di nuovo, d’ombra e di luce, rotti da ciuffi d’alberi verdognoli, da striscie di muri bianchi, irti di fumaiuoli e d’abbaini, quand’anche non si fosse veduta a piè dei balconi la nera fascia del Naviglio e un lungo arco di via parallela, punteggiato di moscerini umani che si traevano dietro lentamente il loro lungo filo d’ombra, si sarebbe pur sempre sentita la smisurata altezza di quella camera nella luce, nell’aria, nei suoni vasti e sordi che ascendevano lassù in un’onda sola, continua.

— Vi prego, — disse Steinegge, togliendo calamaio e fogli dalla tavola e posandoli sulla palchettiera, — aiutate me a mettere il tappeto. Mia figlia ama molto questo.

Presero il tappeto azzurro e nero e lo spiegarono sulla tavola, che non strillò più. La stanzetta prese un’aria quieta, contenta, che si riflettè sul viso del nostro vecchio amico.

— Grazie — diss’egli. — Molte grazie. Oh, voi non sapete con quanto piacere io faccio queste cose. Non sapete cosa io provo quando tocco solo una di queste sedie. Erano diciassette anni che non toccavo una sedia mia, eh? Capite? Diciassette anni. Questo legno è così dolce! Io ringrazio Dio, caro amico. Voi siete giovane, voi non pensate a questo vecchio signore; anche io per un pezzo non ho pensato, ma adesso io ringrazio...! Sentite. — Steinegge afferrò Silla pel braccio e se lo trasse vicino. I suoi occhi scintillavano sotto le ciglia aggrottate; una fiamma sola gl’infocava il collo e il viso.