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— La prego — gli disse Silla interrompendone le chiacchiere — sa Lei perchè il signor conte mi abbia fatto venire?
— Voglio tornare in galera turca se so una parola sola, signor. So che il signor conte Vi conosce; non altro.
Silla tacque.
— Aaah! — Aaah! — Aaah — soffiava Steinegge esalando fumo e beatitudine.
— Che lago è questo? — disse il primo.
— Non sapete? Non siete mai stato? Molti, moltissimi italiani non sanno, io credo, che vi è questo piccolo lago. È curioso che lo debba io insegnare a voi.
— Dunque?
— Oh, il diavolo!
Un colpo di vento sul viso strappò quella esclamazione a Steinegge che fu appena in tempo di gettare il sigaro e di chiudere la finestra. Il sigaro passò come una stella cadente sugli occhi di Silla, i vetri suonarono in alto, le foglie stormirono dietro la casa. Steinegge, tremando d’aver lasciato entrare una boccata di fumo, fiutando l’aria infida, tornò a letto, a sognar che usciva dalla galera turca e che il padischah sorridente gli offriva la sua pipa imperiale colma di buon tabacco di Smirne.
Silla rimase lungo tempo alla finestra. La notte pura, il vento, l’odor delle montagne lo ristoravano, gli versavano silenzio nei pensieri, pace in fondo al cuore. Non si avvedeva, quasi, del passar del tempo, seguiva con attenzione inconscia i ghiribizzi del vento sul lago, le voci, il sussurro del fogliame, il viaggio della luna limpida. Udì una campana solenne suonar le ore da lontano. Le due o le tre? Non sapeva bene, si alzò sospirando e chiuse la finestra. Bisognava coricarsi, riposare un poco per avere la mente lucida all’indomani quando si troverebbe con il conte. Ma il sonno non veniva. Riaccese il lume, camminò un pezzo su e giù per la stanza; non giovava. Cercò risolutamente ricordi e pensieri lontani dalle incertezze presenti, e parve finalmente aver trovato qualche cosa, perchè sedette alla scrivania, e