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il beneficio. Gratitudine per questo? Le pareva di levarsi da terra in un impeto d’alterezza, di scuotere da sè il denaro immondo, di scuoterlo addosso a Nepo Salvador. Li disprezzava egualmente l’uno e l’altro; li odiava; più dell’uomo, il denaro. Non ne aveva mai sentito come ora il tocco ributtante; era vissuta lungo tempo nel suo splendore senza vederlo, senza voler pensare che la luce intorno a sè fosse luce di una rapida corrente d’oro, versata da mille mani sucide e volgari, portata via da mille altre; e non luce della sua nobiltà, della sua bellezza, del suo genio elegante. V’era bene stata un’eclissi momentanea dopo la morte di suo padre, ma più sul volto delle persone che su quello delle cose intorno a lei. Sapeva che nel mondo il denaro è un dio; è voluttuoso sprezzare un dio. Era voluttuoso per lei irritare con le sue freddezze di gran dama la borghesia opulenta, bene aristocratizzata nelle donne, male negli uomini. Pretendeva che a questa gente si vedesse negli occhi e sulla fronte il bagliore dell’oro, che la loro voce avesse un suono metallico, che lo strascico d’ogni signora borghese ripetesse una fila di cifre.

Schizzar su lei un getto d’oro non era beneficarla; altra gente si benefica così. Era piuttosto ferirla, perchè il denaro del conte Cesare doveva essere avvelenato di inimicizia. Peggio ancora: intendeva egli forse saldare a quel modo la partita di tante prepotenze, di tante offese oblique o dirette? Certo lo intendeva. Come mai non l’aveva ella pensato prima?

Suonò il campanello, per Fanny. Fanny faceva dei risolini in quella sera, apriva ogni tanto la bocca come se volesse parlare e non osasse, attendesse un invito.

— Spero — diss’ella finalmente sciogliendo una treccia della sua padrona — che se Lei avesse ad andar via di qua, non mi abbandonerebbe mica, non è vero?

— Fa presto— rispose Marina.

— Faccio presto, faccio presto. Come la mi piace mai quella signora contessa! Come la è mai cara!