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inglese! che francese! Quando si ha la fortuna di nascere col miele profumato in bocca di quel caro dialetto fatto per le Grazie a scuola di Venere, perchè guastarsi il palato col francese e coll’inglese? La contessa ha ragione.

— Andate là che vi credevo peggiore. Sì davvero, vi credevo peggiore. Così mi piace; difendere anche me, povera Giopa. Sarà quel che volete la nostra lingua, ma almeno non è piena di ossi e di spine come le altre. Non dicono che i nostri vecchi, benedetta l’anima sua, parlavano veneziano anche al Papa? Io non son nata nobile, ma sono veneziana vecchia, sa? Mio bisnonno è morto pescando cape da deo, e mio nonno ha servito sotto Sua Eccellenza Anzolo Emo. Parlerò turco, ma francese no, e inglese manco. Il povero Alvise la pensava come me. Sbattezzatemi se ha mai detto due parole altro che in veneziano. Ma adesso non tocca più far così. Adesso tocca vergognarsi di esser veneziani. Andate dalla... e dalla... e dalla... sentirete che musica. No no no. Con il forastiere, non dico, pazienza, ma tra noi altre? Sci, sci, sci, sciù, sciù, sciù? Povere squinzie!

Qui la contessa Fosca volle prender fiato col Barolo; ma appena accostato il calice alle labbra lo posò sputando e schiamazzando, tra le risate di Nepo che aveva trovato modo, durante la sua filippica, di versarle nel vino mezza saliera.

— La ho chiamata come uomo di spirito fra questa gente di spirito — disse piano Marina al Finotti.

— Ah, marchesina — rispose questi sospirando — a che serve lo spirito? Vorrei essere un imbecille di venticinque anni.

Intanto la contessa e Nepo facevano un tal baccano che il conte Cesare, il Vezza e Steinegge entrarono anch’essi in salotto. Il Ferrieri si affacciò un momento all’uscio, ma non entrò: colse anzi il destro di allontanarsi inosservato e non comparve più per tutta la sera.


Malombra. 17