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ghiozzi si chetarono. Marina alzò lentamente il capo e si staccò da Edith.
— È passato — diss’ella — grazie.
— Mi parli — disse Edith, affettuosamente. — Se Lei mi vedesse il cuore...
— Le ho parlato — rispose Marina. — Le ho detto tutto.
Ella ebbe ancora due o tre singhiozzi convulsi, senza lagrime. Edith voleva che sedesse. — No, no— rispose — è passato. — Si morse il labbro sino a sangue e si affrettò a ripetere:— È passato, è passato. — Ella s’era appoggiata a un grosso macigno bianco intagliato a traforo dai ghiacci, che usciva dal prato fra cespugli di mugo, come una scapola enorme di qualche mostro fossile mai sepolto. Ci aveva posate ambedue le spalle, e volto il viso sulla spalla destra, si guardava la mano rabbiosamente attorta agl’intagli bizzarri del sasso.
— Mi dica... — ripetè Edith.
Marina voltò la testa e strappò il fiore azzurro da un lungo stelo che saliva presso a lei.
— Che fiore è? — diss’ella bruscamente. — Pare aconito. — E lo porse a Edith.
Questa prese il fiore senza guardarlo, volle insistere. Marina fu ripresa da un assalto nervoso violento. Stavolta abbracciò il masso, vi soffocò i singhiozzi. Pareva sitibonda di entrar nella pietra, di gelarvi, di irrigidirvi per sempre.
E intorno a lei era tanta pace!
Le campanelle delle vacche empivano del loro tremolìo i silenzi solenni della campagna, mettevano voci di vita innocente nei pascoli, nelle selvette compatte verde-dorate di giovani faggi, in giro a rade macchie metalliche d’abbeveratoi stagnanti. Presso quel sasso gli aconiti rizzavano nel sole fuggente la loro pompa, le felci curvavano le grazie leggiere del fogliame color di aprile, ciclami vanitosi gittavano i lunghi gambi ignudi de’ loro fiori. Tutti circondavano Marina di pace, di dolcezza grave, silenziosa.