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di trapassar le vesti e profondarsi nella morbidezza viva. Marina s’era ricacciata indietro con la cieca bramosìa di stritolare quel braccio che la irritava come una sferza e s’era volta a insultar Nepo, non udita e non vista. L’acqua, il vento, le pietre stesse urlavano cento volte più forte, sempre più forte. Schiacciavano con la loro collera, con la loro angoscia colossale, la piccina collera, le spregevoli angoscie umane. Schiacciavano, buttavano via sottosopra le parole come polvere. La brutale natura prepotente voleva parlar sola. Nepo sentiva il caldo busto di Marina stringersi e dilatarsi ansante sotto la sua mano; gli pareva di discernere, nel frastuono, una fioca voce umana; immaginava parole d’amore e porgeva le labbra in cerca delle labbra di lei, fiutando le tenebre, aspirando un tepore profumato, pieno di vertigini.
Allora un vigoroso colpo di pertica fece che la barca girasse l’ultima svolta dell’andito buio saltando in un diffuso chiarore verdognolo che pareva ascendere dall’acqua trasparente. Nepo non ebbe tempo di veder Marina in viso. Il barcaiuolo ritto sulla prora si era voltato verso di loro. Nepo lasciò prontamente Marina e finse di guardare in alto. Il vecchio barcaiuolo aveva addossato lo scafo allo scoglio puntando la sua pertica alla parete opposta, e, con il braccio libero, trinciava di gran gesti, mostrava la cavità, le gobbe mostruose della pietra.
- Bellissimo! — gridò Nepo.
Caronte si toccò l’orecchio e fe’ con l’indice un segno negativo; indi agitò in su e in giù la mano distesa, accennando in pari tempo del capo come per promettere qualche cosa di più bello, e ricominciò a lavorar di pertica.
Marina, pallida, serrate le labbra, chiusa nello scialle bianco che le stringeva le spalle, pareva un’anima peccatrice, fuggita nello sdegno alle ombre dei fiumi infernali, mezz’irritata, mezzo stupefatta.