Pagina:Malombra.djvu/234


— 230 —

non la magica parola ama. Avvenne allora di Marina come di una corda musicale inerte che chiude in sè la sua nota silenziosa, ma se una voce ignara di lei passa cantando nella stanza ove giace, e tocca tra l’altre questa nota, sull’istante tutta la corda vibra. Ama, ama, ama! In fondo al nero tubo della cisterna brillava un picciol disco sereno rotto da una scura testa umana. Marina chiamò involontariamente a mezza voce:

— Cecilia!

La voce percosse l’acqua sonora e tornò su con un rombo sinistro. Marina si rizzò e riprese il cammino senza parlare.

Girarono le coscia della montagna, discesa giù a destra fino ai greti del torrente. Il fragore di cascate lontane, che si udiva dalle stalle, parve saltar loro in faccia col vento della vallata. Acque potenti non si vedevano; s’indovinavano là davanti in una gola stretta, chiusa da altri monti carichi di fosche nuvole meridiane e nell’ombra di una lunga spaccatura tortuosa che discendeva da quella gola nella valle fra una nera costa imboscata, a frane rossastre, e una massiccia cornice di campicelli, di pratelli verdi, illuminati dal sole. A fianco della gola si vedeva una chiesa bianca appollaiata sopra un sasso eminente: sotto di lei una spruzzaglia di tetti scuri, di capanne accovacciate nei prati. E praterie nitide, arrotondate, erano gli alti dorsi delle montagne a destra e a sinistra, sparsi di macchiuzze nere, di mille tintinnii che facevano una larga voce sola, oscillante, pura. Il sentiero fendeva i declivi erbosi, drappi di fiori tremanti nel vento fresco d’autunno.

Marina si fermò guardando la gola in capo alla valle.

— Dev’essere là — diss’ella.

— Cosa? — domandò Edith.

— L’Orrido. Questo rumore vien di là. Oggi l’Orrido ha un gran fascino per me.

— Perchè?