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mendatore politico avrebbe dato, non dico il suo collegio, ma tutti gli amici suoi per essere, un’ora, il suo amante; il commendatore letterato avrebbe dato tutte le vecchie bas-bleu conservatrici di Milano che lo tenevano nella bambagia come una reliquia classica. L’uno e l’altro le parlavano della bellezza e dell’amore, tanto per avvicinarsi in qualche modo a lei, per sentir meglio la elettricità della sua presenza; il Finotti con un linguaggio fremente di passione sensuale, mal coperta; il Vezza con la sua rettorica blanda e la sua vanità beata. Parlava di lettere scrittegli da sconosciute lettrici delle sue opere; lettere odorate, diceva lui, di quei vapori che l’amore esala come il vino delicato e bastano a inebriare chi ha i sensi squisiti. Allora il Finotti lo canzonava, diceva di non invidiargli il vecchio vino santo delle sue venerabili amiche di Milano, vino scolorato, vino da conviva satur che sta per levarsi dalla tavola e dalla vita. Egli amava il vino giovane, pieno di luce e d’ardore, che va come un fulmine alla testa, al cuore, alla coscienza, perchè quello solo sa dove diavolo sia la coscienza, il vino che ha indosso tutto il fuoco del sole e tutte le passioni della terra, carico di colore e di gas, che fa saltare le bottiglie e gli scrupoli.

— Senta, signor Vezza — disse Marina ex abrupto — rispondeva Lei a quelle lettere?

Il signor Vezza, che si prendeva il suo dolce « commendatore » col caffè mattutino della serva, come al caffè vespertino della dama e sempre di grande appetito, soffriva della privazione inflittagli da Marina. Ma bisognava rassegnarsi; Marina non accordava a nessuno titoli che non fossero di nobiltà.

— Rispondevo alle belle signore — diss’egli.

— Sentiamo questa meraviglia di finezza — disse Marina guardando con aria negligente il remo del Rico.

— Non c’è finezza, marchesina. Si potrebbe dire che nelle lettere anonime delle belle donne c’è sempre un’ombra di riservatezza e in quelle delle brutte c’è sempre