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Si udirono in quel silenzio mortale due mosche azzuffarsi dentro una zuccheriera.

— Eh certo — diss’ella. Pareva che Sua Eccellenza, dopo tante ciarle, si fosse trovata a un tratto senza fiato.

— Del resto — disse il conte — è molto possibile che non partirete. Dipenderà da mia nipote.

— Come da vostra nipote?

— Sicuramente. È la mia coscienza che mi ha imposto di darvi quel consiglio, perchè non credo che mia nipote e Vostro figlio si convengano. Ma voi non avete questa opinione, neppure Vostro figlio pare che l’abbia, e potrebbe darsi che non l’avesse neppure mia nipote, la quale è perfettamente in grado e in diritto di avere una opinione. Allora capite bene che io non potrei nè vorrei far prevalere la mia.

— Andate alla Sensa, Cesare? Dopo tutto quello che Vi ho detto...

Il conte si alzò e la interruppe.

— Volete favorire nella mia biblioteca? Ho la debolezza di trattare sempre gli affari in quel luogo.

La contessa voleva replicare qualche cosa, ma suo cugino, aperto l’uscio, le accennò che passasse. Intascò poi la tabacchiera posata da Catte e seguì la contessa. Quando Sua Eccellenza si fu accomodata in un seggiolone della biblioteca, il conte si mise a camminare su e giù per la sala, muto, con la testa bassa e le mani in tasca secondo il suo solito. Sua Eccellenza lo guardava senza aprir bocca, sbalordita. Fatti cinque o sei giri, il conte le si fermò in faccia, la guardò un momento e disse:

— Che vi pare di trecentoventimila franchi?

Il viso di Sua Eccellenza diventò paonazzo. Ella balbettò qualche parole inintelligibile.

— Trecentoventimila miei e ottantamila suoi fanno quattrocentomila. Che vi pare di quattrocentomila franchi?

— In nome di Dio, Cesare, cosa volete dire? Non capisco!