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D’acciaio? Si è mai sentito? D’acciaio si fanno le penne, anima mia.
La contessa interpose qui un breve silenzio e alcuni gravi colpi di ventaglio.
— Che roba! — continuò. — Non ve ne intendete. Oh, non ve ne intendete, figlio caro. E quella poveraccia di Marina, neppur quella conoscete, signor orso. Eh, no no, caro.
E giù quattro colpi di ventaglio.
Intanto il conte la guardava con uno stupore troppo espresso per essere del tutto sincero.
— Ma allora — diss’egli, — è vero, io non comprendo niente. Se avete queste idee, perchè diavolo Vi fa paura che vostro figlio faccia la corte a mia nipote?
— Sentite, Cesare, io avrò tutti i difetti e tutti i torti del mondo, ma son sincera. Mi prenderete in mala parte se parlo schietto? C’è anche questa, che se mio fio lo viene a sapere che vi faccio certi discorsi, poveretta me, non ho più pace. Mi raccomando, Cesare. Volete che ve lo dica? Questa cosa mi fa gruppo alla gola, stento a buttarla fuori. È una umiliazione grande, è una cosa contraria al mio carattere, ma i fatti son fatti, il dovere è dovere.
La contessa posò il ventaglio sul tavolo, si ripose il fazzoletto in tasca, si riannodò la cuffia, e poi ricominciò lenta e grave:
— Ecco qua. Pur troppo la famiglia Salvador di adesso non è più la famiglia Salvador di una volta. Il povero Alvise è stato molto disgraziato nei suoi affari; e poi abbiamo avuto il 48, e s’è fatto quel che s’è fatto. Non faccio per dire, ma se non era la roba mia i Salvador sarebbero andati a pescar moleche. La roba mia quando Alvise mi sposò, era tanta. Magari fosse vissuto ancora, benedetta l’anima sua! Si sarebbe in malora: ma contenti. Di quei pensieri, di quelle fatiche, di quelle privazioni ho avuto, figlio caro, che non Vi dico niente.