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Quasi ogni giorno si facevano gite sul lago o sui monti. Era la contessa Fosca che metteva fuoco, per così dire, alla brigata, senza farne mai parte. Ne aveva abbastanza di girar per casa! Perdeva spesso la tramontana sulle scale o nei corridoi. Allora chiamava Catte, chiamava Momolo. Catte era già pratica d’ogni buco quanto un vecchio topo; ma il povero Momolo non ne poteva venire a capo e non era infrequente il caso che all’appello della contessa rispondesse quasi di sotterra la sua voce lamentevole: — Pronto, Eccellenza; ma non so da che parte. — Gli Steinegge erano andati due volte alla canonica e don Innocenzo avea fatto anche lui una visita al Palazzo. Quanto al dottore, non vi si era più veduto.

Bella e allegra compagnia era quella che pranzava nel tinello. Motti, burle, grossi equivoci, galanterie bernesche, botte e risposte di taglio e di punta, sussurri maligni, risate, strilli, mugolii di mangiatori disturbati, s’urtavano, s’incrociavano, si mescolavano sotto le volte basse. Un tocco di campanello troncava netto quel tripudio di ranocchi indiavolati; poi scappava fuori daccapo una voce, un’altra, una terza, tutto il concerto. La Giovanna se ne crucciava inutilmente. Chi faceva le spese di tanto chiasso era per lo più Momolo che sapeva dir solo — andiamo, andiamo, da bravi. — Da Momolo, i beffeggiatori passavano al parlare veneziano, a Venezia stessa; ma allora bisognava sentire e veder Catte, riconoscere che cinque o sei lombardi son pochi davvero per azzuffarsi a parole con una brava calèra del buon sangue veneziano. Con quattro frustate in giro li faceva stare indietro tutti, poi ne sceglieva uno e lo tempestava di motti e di frizzi, voltandogli addosso le risate della compagnia, sprecando un tesoro di spirito e concludendo, inebetita la vittima, che non c’era gusto.

― Andate là — diceva qualche volta Fanny — stiamo più allegri noi che i sciori.