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con Edith per andare a stabilirsi a Milano; ed era questo un piacere comune. Marina prendeva qualche volta a braccetto Edith per fare un giro in loggia o in giardino. Edith non sembrava lieta di questi favori e se ne schermiva. Il suo contegno con Marina era freddo quanto glielo consentiva la sua condizione di ospite: e non mancava in quel riserbo un’ombra di alterezza. Non si poteva accusarne il sangue tedesco. Per la contessa Fosca, Edith mostrava viva simpatia, e anche pel conte Cesare, benchè in tutt’altro modo. E il conte Cesare era affettuoso con lei, aveva combattuto i suoi propositi di immediata partenza, le si apriva più assai che a suo padre: le parlava della sua vita solitaria con l’amarezza pacata che copre dolori profondi, e le diceva di sentirsi scossa la salute ferrea goduta sin allora. Con i Salvador, tanto agli antipodi della sua natura, il conte si mostrava paziente oltre il prevedibile. A Marina non rivolgeva quasi mai la parola. I loro sguardi non entravano direttamente l’un nell’altro in nessun caso; correvano obliqui a incrociarsi in un punto X più o meno lontano, come certe linee ipotetiche di teoremi geometrici. L’umore di Marina era dei più mutabili. Da lunghe ore di calma taciturna passava ad impeti di nervoso brio. Civettava un momento con Nepo a segno di stordirlo, di levarlo da terra; poi non lo guardava più, non gli rispondeva. Viveva, si può dire, d’aria; e non era mai stata così bella. Sotto le due bende ondulate di capelli che scendevano curve fin presso le sopracciglia, quasi a nascondere un segreto pensiero, i suoi grandi occhi gittavano fuoco assai più spesso del solito. Nella sua persona, musica inesprimibile di curve armoniose dall’orecchio finissimo alla punta del piede arcuato, si vedeano alternarsi l’energia e il languore di una vita nervosa, esuberante. Insomma ella era come un nodo di ombra, di luce e di elettrico; che cosa chiudesse, nessuno lo sapeva.