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sempre corretta e semplice ma viva di un sentimento riposto, di un’intelligenza molto fine, molto ardita.
— S’Ella venisse al Palazzo, signor curato — disse Steinegge — vedrebbe molti quadri, oh moltissimi belli quadri che ha il signor conte.
— Ci vado un paio di volte l’anno e mi pare d’averla veduta anche Lei, colà! ci andrei più spesso, ma so che il signor conte non ama molto i preti...
Steinegge diventò rosso; gli dispiacque d’aver provocate queste parole.
— Eh — disse don Innocenzo facendosi alla sua volta di bragia — eh, cosa importa? Non li amo neppure io i preti, sa!
— Ah — esclamò Steinegge stendendogli le braccia come se il curato gli avesse dato una notizia più lieta che credibile.
— Non si scandolezzi, signorina — continuò questi. — Parlo degli italiani. In Italia i preti (don Innocenzo, con gli occhi accesi, co’ denti stretti, faceva suonar gli erre come trombe di guerra) non tutti, ma molti sa, e i giovani specialmente, sono una trista genìa, ignoranti, fanatici, ministri di odio...
— Si capisce che ne fu seminato — disse Edith, severa, mentre Steinegge metteva la sua gioia in gesti.
— Lo hanno seminato e lo seminano — rispose don Innocenzo — e ci cresce intorno a tutti, dico intorno a tutti che portiamo quest’abito; e si perdono anime ogni giorno. Basta, basta, basta!
Guai quando il curato toccava questo tasto; la collera gli saliva alla testa; le parole gli uscivano aspre e violente oltre ogni misura. Ad irritarlo così bastava poco: un numero di qualche giornale clericale che il vicario foraneo, gesuita di tre cotte, gli mandasse facendo lo gnorri, con dei segni ammirativi a fianco degli articoli più acri; una lettera fremebonda di qualche collega bandito dalla curia a parole e perseguitato a fatti per