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sì tagliente da potersi onestamente chiamare arme preistorica. Steinegge pigliava grande interesse alle sue spiegazioni che avrebbero fatto sorridere un dotto, perchè il povero prete entusiasta si accendeva di ogni novità che penetrasse, per mezzo di qualche libro o di qualche giornale, nella sua solitudine, e su bricioli di dottrina spezzata e guasta tirava su i soliti edifici assurdi del pensiero solitario.

Edith preferiva guardare i prati macchiati dalle ombre di grossi nuvoloni, i tetti neri del paesello, quasi appiattiti fra gelsi e noci; a sinistra e più abbasso della canonica, il lembo di lago che di colà si vede, come lamina d’acciaio brunito, mordere il verde chiaro delle praterie.

— Che le pare, signorina, di questa Italia? — disse il curato.

— Non lo so — rispose Edith — ne avevo in mente un’altra, più diversa dal mio paese. Ho veduto in Germania molti paesaggi italiani di pittori nostri, ma i soggetti eran presi sempre a Roma o a Venezia o a Napoli. I viaggi di Goethe o di Heine non me li hanno lasciati leggere. Mi vergogno a dirlo; la più profonda impressione me l’ha lasciata un pessimo acquerello, la prima cosa che mi colpì in una casa dove sono stata dodici anni. Rappresentava il Vesuvio e v’era scritto sotto «Scene d’Italia». Era come una piccola macchia rossa sopra una grande macchia azzurra. Solo guardando ben da vicino si potevano discernere le linee della montagna, il mare e una barca piena di figure stranamente vestite. Per lunghissimo tempo non ho potuto figurarmi l’Italia nè gli italiani diversi da quella pittura.

— È naturale — disse don Innocenzo, che entrava avidamente in tutti gli argomenti curiosi di conversazione. — Guardi: a ragazzi d’ingegno molto acuto io non farei mai vedere negli anni più teneri immagine alcuna di Dio nè di Santi, perchè quelle immagini pos-