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dolorose, che le si destavano per tutto il corpo, pensando all’infallibile compiersi delle promesse divine, all’amore fatale che l’avrebbe esaltata tutta, anima e sensi, oltre alla torbida natura umana. Di questo non le entrava neppure un dubbio. Ripensava tutte le difficoltà da doversi superare per toccar la meta, le smarrite tracce di Silla, lo sdegno di lui, fors’anche l’oblìo; la sepoltura del Palazzo dove il caso non poteva aiutare; la nimicizia dello zio, quel ridicolo Nepo. Provava un piacere acre e forte rappresentandosi questi ostacoli: tutti vani contro Dio, Patrem omnipotentem.

A Lui, a Lui si abbandonava. Curva sul banco la flessuosa persona, pareva una Tentazione penitente. La contessa Fosca le dava delle occhiate oblique, lavorando a più potere di ventaglio e battendo via con le labbra frettolose un chiacchierìo muto di preghiere interminabili. Si compiaceva di vederle quell’attitudine pia. Immaginava gl’inchini che il vecchio nonzolo di S. Maria Formosa avrebbe fatto a sua nuora. Nepo era alla tortura; si portava e riportava al naso il fazzoletto profumato, guardava sottecchi i suoi vicini colossali e, quando si buttavano ginocchioni con tutti gli altri fedeli, egli non osava stare ritto, calava adagio adagio, pieno di angoscia pei suoi calzoni color tortora. Che differenze dall’ultima Messa di S. Filippo, da quel giardino di tote e di madame eleganti, da quell’ambiente di cristianesimo depurato! Si consolava pensando alla cugina. — Natura aristocratica — diceva tra sè. — Debbo essere il suo ideale, il suo Messia. Non vuole che me ne accorga troppo, è naturale.

Suonò il campanello dell’elevazione. Nepo, in ginocchio, col capo devotamente chino, pensava: — Milleduecento ettari in Lomellina, ottocento nel Novarese, palazzo a Torino, palazzo a Firenze.

Invece Edith non abbassò il viso. Era pallidissima, guardava avanti a sè con occhio grave e tranquillo. Solo un tremito delle mani tradiva il fervore dell’accorata