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che per far largo alla grossa signora s’inginocchiano a terra fuori del banco. Ed ecco suona il campanello, escono i chierici in cotta bianca, esce il prete affondato nel piviale, l’organista pianta mani e piedi sull’organo, gli uomini entrano in chiesa. Dopo cinque minuti, per la porta laterale compare Marina seguita da Nepo. Passando tra le file degli uomini fa cenno al suo cavaliere di pigliarvi posto ed entra in una cappella. Nepo, elegantissimo, capita fra due puzzolenti, si fa piccino piccino e volta il viso immelensito a guardar giù per la chiesa, cercando Marina. Trova Catte inginocchiata presso alla Giovanna, trova Momolo ritto presso alla porta; trova un pezzo di cielo puro e di verde lucente con certe frondi mosse dal vento, che gli ridono in faccia, trova gli occhi attoniti di sua madre, ma non la crudele che s’è pigliato il gusto di fargli rinnegar la Messa a parole per poi condurvelo e piantarlo lì fra quel tanfo di plebe.

Ella non pensava a lui. Il prete aveva intonato Credo in unum Deum, e il popolo, fra i suoni dell’organo, seguiva: Patrem omnipotentem. Un lampo illuminò nel cuore di Marina la via percorsa; la scoperta del manoscritto, le promesse arcane a Cecilia, l’amore intravveduto negli occhi di Silla, la stretta delle sue braccia veementi, il nome sussurrato da lui quella notte, la probabilità ch’egli fosse il suo corrispondente anonimo portato a lei da un destino, e la passione, sì, la benedetta passione sorda, muta, lenta, prepotente, che dopo tanto desiderio, dopo tanti barlumi dileguati, dopo tanto fastidio di sciocchi corteggiatori, veniva. Ella ebbe tino slancio di fede e di gratitudine verso un Dio ignoto, certo diverso da quello che si adorava lì presso a lei; non così freddo, non così lontano: benefico e terribile come il sole, ispiratore di tutti gli ardori onde splende la vita. E si sentiva come presa in mano da questo Iddio, portata dal suo favore onnipotente. Teneva il viso tra le palme, si ascoltava il cuore batter forte, gustava le sensazioni acute, quasi