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lazzava intorno alle gran dame e alle belle dame senza bruciarsi le ali e nemmanco il cordoncino dell’occhialetto; scherzava impunemente con loro, le consigliava nelle più gravi minuzie, acquistandone a poco a poco certa stima sui generis, per cui esse non potevano parlar di Nepo Salvador senza farne gran lodi e sorridere. Il suo nome illustre e la buona opinione che molti avevano di lui, piuttosto per desiderio e per fede che per conoscenza dell’uomo, prevalsero un pezzo su questi equivoci sorrisi e sui giudizi che poche persone, a quattr’occhi, facevano di lui. Finalmente i sussurri si propagarono, diventarono mormorii, bisbigli, voci; il credito di Nepo si sdruscì rapidamente da ogni parte; il suo perpetuo occhialetto, le fogge esagerate degli abiti, il portamento effeminato, la vanità ridicola, gli stomeghezzi, le taccagnerie male nascoste, furono liberamente derise; i suoi amici si confidarono il gran dubbio che sapesse pochino pochino e quando uno diceva «talento, però» un altro rispondeva «euh, memoria». Nepo Salvador diventò il conte Piavola.
Nel 1860 due o tre valentuomini, amici di casa Salvador e teneri, per l’onor di Venezia, del nome patrizio, accordatisi fra loro, si misero attorno a Nepo onde persuaderlo a emigrare. Bisognava prepararsi all’avvenire, come facevano tanti altri delle migliori famiglie, con la esperienza della libertà, con l’amicizia dei pezzi grossi di Torino. Nepo era ambizioso, cominciava a sentire un freddo intorno a sè; abbracciò subito l’idea. La contessa Fosca odiava religiosamente col suo grosso patriottismo, i tedeschi, ma non poteva comprendere che diavolo fosse questa libertà cui bisognava prepararsi tanto tempo prima, nè quale onore fruttasse l’essere Deputato, cioè, com’ella concluse dopo infinite spiegazioni, l’essere mandato in tanta malora dal calegher, dal forner, dal frao, ecc. A una amica che le domandò se partiva lei pure, rispose stizzita: — Io? Cosa volete che