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— Bene, bene, sessanta o seicento, è sempre una storia vecchia, e qui ai signori può interessar poco.

Ma il povero Sindaco, preso alle strette, non trovò modo di schermirsi; e, per non aver più quel peso sullo stomaco, lo buttò fuori a un tratto.

— Ecco, questa matta era la prima moglie del povero conte vecchio, qui del Palazzo; una genovese, che ha scappucciato, pare, un tantino, e suo marito l’ha condotta qui, l’ha tenuta come in castigo, ed è stato qui anche lui finchè è morta; la gente dice che il diavolo se l’è portata a casa per di là.

Mentr’egli parlava, Marina si alzò, gli voltò le spalle. I suoi colleghi gli fecero gesti di rimprovero. Il Vezza disse a caso:

— È la barca di Cesare quella là?

— Bei tempi!— esclamò Silla con voce sonora.

Tutti, tranne Marina, lo guardarono sorpresi.

— Tempi di forza morale — proseguì senza badare a quelle occhiate. — Di forza morale organica. Adesso si hanno le convulsioni, gl’impeti di passione sfrenata, e, in fondo, egoista. Se una donna tradisce, la si ammazza o la si scaccia. Vendicarsi e liberarsi; ecco lo scopo. Allora no. Allora vi era qualche gentiluomo capace di seppellirsi con la colpevole in un deserto e di dividere la espiazione senz’aver divisa la colpa, rompendo tutti i vincoli del mondo, per rispetto a un vincolo sacro, benchè doloroso.

Marina, senza voltarsi, sfrondò nervosamente con la destra un ramo di passiflora.

— Può essere stata una vendetta atroce — disse il Finotti— un omicidio lento e legale. Che ne sa Lei?

— Non lo so; non credo che il padre del conte Cesare sia stato capace di questo. E poi, ci occupa, ci commuove la pena; ma la colpa? Chi era questa donna? Chi ci può dire?....

Donna Marina si voltò.

— E Lei — diss’ella con voce rotta dalla collera —