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— Ehi! — esclamò il Vezza accorgendosi dei nuvoloni neri che ingrossavano a levante. — Vuol far temporale.
— Oh signor no — disse l’assessore che aveva parlato prima — per adesso no; stanotte, forse.
— Come si chiamano quei sassi là in alto dove batte il sole?
— Noi li chiamiamo l’Alpe dei fiori. Da ragazzo ci sono stato anch’io lassù, a far fieno. Potevano metterci nome l’Alpe del diavolo ch’era più meglio.
— C’è bene, lassù, il buco del diavolo — disse l’altro assessore.
— Ah, c’è un buco del diavolo? — disse Silla — E perchè lo chiamano così?
— Ma, io non saprei mica, vede. Bisogna domandare alle donne. Loro contano un sacco di storie!
— Per esempio, dicono che per quel buco si va all’inferno, che è un piacere, dritti come i, e che i beniamini del diavolo piglian tutti quella strada là. Ci fanno anche il nome a tre o quattro che ci son passati.
— Ah sì? — disse il commendator Finotti. — Sentiamo.
— Proprio non mi ricordo, sa...
— Gente del paese, già?
— Del paese e mica del paese. Non mi ricordo.
Qui l’onorevole Sindaco uscì, in mal punto, dal suo prudente silenzio.
— Pare impossibile, Pietro — diss’egli — pare impossibile che non vi ricordiate. La matta!...
— Che asino! — mormorò fra i denti il poco riverente assessore, e non disse altro.
— Bravo Sindaco. A Lei! Lei deve ben sapere da che parte vanno all’inferno i Suoi sudditi, diavolo! Racconti dunque! Non sarà mica un segreto d’ufficio, spero.
Il Sindaco, accortosi troppo tardi di aver posto un piede in fallo, si andava contorcendo sulla sedia.
— Ouf, seicento! Non saranno neanche sessanta — disse un altro municipale che fino allora era stato zitto.