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a Silla, non esprimeva preoccupazione alcuna. Il commendator Vezza, che aveva la manìa di saper tutto, le domandò, per ultimo tentativo, se conoscesse un certo punto di ricamo di nuova introduzione, che a Milano tutte imparavano. Ella gli rispose con una sommessa esclamazione di meraviglia sdegnosa che turbò molto il dotto uomo e lo spinse a buttarsi subito fra i discorsi degli altri. Si parlava della futura cartiera. L’ingegnere vantava le nuove macchine che si sarebbero introdotte per fare e adoperare la pasta di legno. Steinegge si stupiva che la pasta di legno fosse una novità per l’Italia; secondo lui l’uso n’era divulgatissimo in Sassonia. Il Vezza osservò che in Italia usavano gli azionisti di pasta di legno e le azioni di cenci; fece poi dei commenti agrodolci su questo germanismo industriale tanto riprensibile, secondo lui, quanto il germanismo letterario. La discussione s’infervorò subito. Il Finotti sosteneva il Vezza; l’ingegnere lo combatteva. Steinegge, rosso rosso, fremeva in silenzio, versava Sassella, versava Barolo sulle piaghe del suo amor proprio nazionale.

— Quella è la miglior poesia italiana, non è vero? — gli disse ridendo l’ingegnere.

Steinegge giunse le mani, soffiò e alzò gli occhi al cielo senza parlare, come un vecchio serafino estatico. — Ben detto, signor Steinegge, bravo, — gridò l’onorevole deputato. — Cesare, tra poco ci capita la Giunta di R..., non è vero, per conferire qui con Ferrieri sotto i tuoi auspici. Bisogna inzupparmela di questo Barolo. Per quanto siano duri quei signori, l’amico se li mangerà facilmente, uno dopo l’altro.

— Oh, non li conosci, — rispose il conte. — Essi berranno il mio vino e le ragioni del signor professore, loderanno tutto e non si decideranno a niente. Questa gente, più la si accarezza, meno si fida. E non ha poi tutti i torti.

Già! Timeo! Ma intanto lui, il professore, non