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scuro nella camera e non si poteva vedere l’espressione del suo sguardo. La voce suonava tuttavia di fredda indolenza. Silla s’inchinò.

Donna Marina aspettava forse che si offrisse per finire la partita con lei; ma questa offerta non veniva. Accennò allora la sedia vuota in faccia a lei con un gesto della mano destra, senza muovere affatto la testa. Evidentemente quella mano non aveva detto « prego » ma « permetto ».

Silla si sentì vile. Era forse la sottile fragranza entrata nella camera, la stessa fragranza sentita il giorno del suo arrivo nella galleria dei paesaggi, che ora gli ammorbidiva l’orgoglio, gli diceva, a nome di Marina, tante cose blande. Voleva rifiutare e non poteva.

— Ha paura? — disse donna Marina.

Silla prese la sedia vuota.

— Di vincere, signorina — rispose.

Ella alzò gli occhi in viso. Adesso Silla poteva quasi sentire il tepore di quel viso; adesso vedeva bene i grandi occhi freddi che lo interrogavano insieme con le labbra.

— Perchè di vincere?

— Perchè non so farmi inferiore se non lo sono.

Ella alzò impercettibilmente le sopracciglia come altri avrebbe alzato le spalle, guardò lo scacchiere tenendo l’indice arcuato sul mento, e disse:

— Movo io.

Porse la mano, la tenne un momento sospesa sui pezzi.

La lama di luce che entrava fra le imposte socchiuse le batteva sui capelli capricciosi, sulla guancia pallida, sull’orecchio delicatissimo, sulla piccola mano bianca sospesa in aria, lumeggiata, nell’ombra, di trasparenze rosee, mostrava una bella figura tranquilla, intenta al giuoco. Silla non era così tranquillo, pensava involontariamente, guardandola, che l’avrebbe baciata e morsa. Donna Marina prese il pedone della regina bianca e lo gettò nel bossolo.