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se tutte queste condizioni si fossero avverate e se l’autore si fosse date le mani attorno, Un sogno avrebbe probabilmente trovato miglior fortuna.

A Marina parve andare a sangue, perchè quando l’aperse l’ombra violacea della montagna copriva gran tratto di lago oltre la rada; quando lo posò, il sole brillava per le vette dei boschi pendenti sopra il suo capo e l’ombra violacea moriva a pochi passi dalla sponda in un bel verde smeraldo.

Tornò al Palazzo con la mente piena di quel libro. Avrebbe voluto conoscerne l’autore, parlargli. Credeva egli in quello che aveva scritto? Credeva si potesse resistere al destino e vincerlo? Se il destino era stato vinto, poteva dirsi destino? Se non poteva dirsi destino, v’hanno dunque spiriti maligni che si pigliano giuoco di noi, rappresentandoci il falso colle apparenze del vero e rappresentandocelo in modo da colpire fortemente la nostra fantasia?

Nessuno rispondeva a tanta furia di domande e Marina voleva risposta. Non indugiò un momento. Senza neppur pensare a chi nè come avrebbe diretta la lettera, buttò giù d’un fiato otto fitte paginette di una calligrafia inglese alquanto irregolare, battezzata già da miss Sarah per anglo-indiana. Le otto paginette sfolgoravano di brio. Marina vi aveva preso un tono di maschera elegante che sa mescolare con garbo aristocratico le parole ironiche alle serie, e colorire la grazia con l’alterezza. Sottoscrisse «Cecilia» e, dopo un istante di incertezza, aggiunse il seguente poscritto:

« Vorrei pur sapere se credete possibile che un’anima umana abbia due o più esistenze terrestri. Se l’etereo autore di Un sogno non usa di colombe nè di rondinelle postali, come si potrebbe sospettare, mandi semplicemente la sua risposta al dottor R.., ferma in posta. Milano. »

Poi Marina scrisse quest’altro biglietto alla signora Giulia De Bella: